Forlì, che sta trasformandosi sempre più in una preziosa città d’arte, offre fino al 2 luglio 2023 la straordinaria opportunità di attraversare due secoli di storia e civiltà attraverso l’arte e la moda – elementi che da sempre si intersecano nel quotidiano di tutte le classi sociali con influenze reciproche – grazie a un’eccellente mostra che ha richiesto un grande sforzo organizzativo unito alla passione e competenza del Direttore e dei Curatori. Sede di questo affascinante percorso, che per la sua singolarità ed eterogeneità affascina e facilita il viaggio nel tempo, è il complesso di San Domenico (con annessa chiesa di San Giacomo) restaurato e restituito a un centro storico a sua volta rivalutato in modo coerente.
Più di trecento opere (provenienti da importanti musei nazionali e internazionali e da case di moda) tra quadri, sculture, accessori e abiti d’epoca e contemporanei di cento artisti e cinquanta stilisti e couturier assolutamente imperdibili perché nel periodo preso in considerazione – definito “L’età dei sogni e delle rivoluzioni” – si verificano nella politica e nella società con uno scorrere più rapido rispetto ai secoli precedenti numerose trasformazioni che innovano, se non stravolgono, la tradizione, pur affondando in questa le proprie radici.
L’ex chiesa di San Giacomo con i suoi ampi spazi accoglie a braccia aperte il visitatore proiettandolo nel ‘700 con i suoi lampi di modernità sia nell’organizzazione della distribuzione degli articoli di moda grazie alla nascita dei negozi, sia negli stili, sia nei materiali determinando l’affermazione sociale e culturale della moda con il suo bagaglio di contraddizioni quali trasgressione/ omologazione, rottura/ consenso, policromo/ monocromo… È Luigi XIV (regna dal 1643 al 1715) che durante l’Ancien Régime, inneggiando al lusso sfarzoso (era vietato indossare due volte lo stesso abito a meno di radicali modifiche: altro che leggi suntuarie che ab antiquo avevano cercato di limitare l’eccesso di sfarzo!) per bloccare eventuali aspirazioni di potere della nobiltà costretta a Versailles, favorisce lo sviluppo di tale settore (tra l’altro nascono le marchandes de modes), bene di consumo vitale per l’economia dell’epoca.
Interessante a metà secolo la nascita della robe à la française, diffusissima sopravveste femminile, poi sostituita dal più comodo e aderente modello à l’anglaise, rielaborazione della redingote maschile, che suggerisce nuova libertà per il corpo femminile. La vera rottura con la tradizione si ha nel 1783 quando Elisabeth Vigée Le Brun espone al Salon un Ritratto di Maria Antonietta (consorte di Luigi XVI) con un semplice abito bianco di mussolina, la chemise à la reine: modernità che non le eviterà comunque la ghigliottina! Bisogna tuttavia attendere il 29 ottobre 1793 quando, durante la Rivoluzione Francese, la Convenzione decreta la libertà totale di abbigliamento “secondo la volontà individuale” anche se David è incaricato senza successo di disegnare il costume del rivoluzionario. Comunque, da ora l’uomo rinuncia a essere bello e si adatta a essere pratico in nome di nuove rispettabilità e produttività.
Con il Direttorio e l’Impero la donna indossa abiti bianchi senza sovrastrutture, leggeri e trasparenti in virtù del neonato gusto neoclassico teorizzato da Winckelmann e applicato da pittori quali Appiani, Camuccini, Giani, Sabatelli, David e Hayez: poiché tali vesti scoprono braccia e spalle, essendo il soprabito inviso, nasce la moda degli scialli anche grazie al cachemire portato da Napoleone dopo la campagna d’Egitto. Dopo la Restaurazione dei vecchi sovrani voluta dal Congresso di Vienna, l’Italia dipende dalla moda di Parigi da cui arrivano figurini, decorati dal milanese “Corriere delle dame” (attivo dal 1804 al 1874) e indossati da dame ritratte da Hayez, Giuseppe Molteni ed Eliseo Sala. Il Romanticismo nella moda è propagandato dal toscano Giuseppe Bezzuoli con il Ritratto della famiglia Antinori.
È lo stilista Frederick Worth, pur occhieggiando agli impressionisti e ai macchiaioli, a volgersi al passato creando l’haute couture, complice l’imperatrice Eugenia (consorte di Napoleone III) amante del lusso utile anche ai potenti d’Europa come legittimazione del potere riacquisito. Grazie all’interazione tra dipinti (di musei e gallerie) e moda nasce il mito dell’eleganza il cui simbolo maschile è Lord Brummel, mentre la donna elegantemente coperta di tessuti e decori acquisisce la capacità di spendere e quindi di scelta di capi di serie ancorché firmati anche nei nuovi magazzini (che innovano in modo marcato l’urbanistica) dell’Ottocento come “Le Bon Marché” (1838) e le “Galeries Lafayette” (1912) in Francia, “Harrods” (1851) in Inghilterra e in Italia “Aux villes d’Italie (1836) ribattezzato “La Rinascente” nel 1918 da D’Annunzio.
Ecco affermata la moda borghese che dal secondo ‘800 si lega anche con il teatro e l’opera, Alla modernità guarderanno il neomanierismo dello stilista Pingat, il Simbolismo di Jacques Doucet e in modo eclatante la “Belle Epoque” con le sublimi donne ritratte da Boldini, De Nittis, Corcos, Degas e Toulouse-Lautrec, artisti della moda e della dolce vita.
E ancora un caleidoscopio di artisti, movimenti e avanguardie tra cui per citarne alcuni Klimt e tra i Futuristi Balla e Depero per non parlare di Mariano Fortuny, interprete dell’abbigliamento degli anni Venti, che trasforma il chitone (abito dell’antica Grecia) in tunica e poi Maria Monaci Gallenga e Rosa Genoni che si ispirano al ‘300 e al ‘400. Un ‘900 che da solo meriterebbe una mostra per la pluralità degli accostamenti tra arte e moda, ciascuno con le sue peculiarità. Si cita la relazione tra il segno calligrafico di Capogrossi ripreso dalla bellezza essenziale delle linee di Renato Balestra. Interazioni e influenze reciproche destinate a non finire mai.
testo di Wanda Castelnuovo