Viaggiare attraverso i vini tra degustazioni e terroir

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La ricerca e l’approfondimento delle tradizioni alimentari sono un viaggio in una cultura che esprime l’essenza di un popolo permettendo di decifrarne caratteristiche sociali ed economiche.   È inutile ricordare come la cucina popolare (altra cosa quella dei nobili e della ricca borghesia: è, infatti, sufficiente leggere qualche menù del passato per capire immediatamente lo status sociale dei fruitori) sia stata frutto dei prodotti della terra meno ambiti trasformati in capolavori del gusto dalla fantasia umana. Anche un ‘viaggio’ nella storia del vino è un percorso nell’evoluzione della società e dei costumi: basti pensare che ancora nel secolo scorso il vino era con il pane il principale alimento di gran parte della popolazione, mentre oggi è soprattutto espressione di raffinatezza, uno status symbol come l’oggetto di design o l’abito griffato.

Un fenomeno che si è sviluppato gradualmente ed è apparso irreversibile sul finire degli anni sessanta quando – complice il livello di benessere diffuso raggiunto per la prima volta dal Paese – si sono stabilizzati due trend di andamento opposto: la discesa del consumo annuo pro-capite di vino e l’incremento della ricerca della qualità indipendentemente dal prezzo. Sono gli anni in cui gli Italiani cominciano a confrontare i nostri vini con quelli mitici della vicina Francia e una nuova generazione di produttori ed enotecnici crea eccellenze da affiancare al Barolo fino a quel momento l’unico competitor dei grandi rossi d’Oltralpe. Parallelamente anche i consumatori più attenti realizzano che un vino esprime molto di più dei vitigni che lo originano rappresentando quel complesso mix definito dai Francesi terroir.

Degustare, quindi, bottiglie rappresentative di diversi decenni non significa solo assaporare e spesso scoprire la stupefacente validità di certi vini, ma anche fare un viaggio nella storia: non quella arida e scolastica delle date e degli eventi, ma quella vera della cultura reale di una società, sintesi in divenire di nanche contrastanti e dalle origini più diverse. È quanto si è vissuto nelle cinque masterclass programmate a latere della splendida manifestazione Wine Days organizzata da Civiltà del bere nell’affascinante e raffinata cornice del Museo dei Navigli a Milano, location che con la sua struttura e la sua storia riporta a quando la ‘capitale’ lombarda poteva essere definita una città d’acqua. Se le degustazioni riservate ai ‘Vini vulcanici’, allo Champagne e ai ‘Grandi bianchi di montagna’ hanno espresso realtà vinicole più definite sotto l’aspetto territoriale o geologico è con le masterclass ‘Pinot Noir’ e ‘Viaggiare nel tempo’ che si sono compiuti due straordinari ‘viaggi’ nello spazio (le diverse realtà del Pinot Noir dall’Oltrepò alla Nuova Zelanda) e nel tempo (5 decenni, 5 vini, 5 storie).

I Pinot sono stati protagonisti di una degustazione cieca che ha esaltato (non esistendo condizionamenti dovuti alla conoscenza delle regioni d’origine e, quindi, ai relativi preconcetti) la capacità del vino di far identificare attraverso bouquet e sentori il territorio di origine. Vitigno molto amato specialmente da chi non privilegia i vini dalla struttura particolarmente robusta, il Pinot noir instaura immediatamente un rapporto di simpatia grazie a un bouquet ampio e delicato, ma è il palato che ne rivela la finezza tannica e la grande pulizia. Un equilibrato uso del legno garantisce ai Pinot noir la durata nel tempo arricchendoli ulteriormente di sentori.

Per evidenziare le differenze di terroir i protagonisti della degustazione erano omogenei per grado alcolico, annata e fascia di prezzo in modo da evitare ‘punte’ che avrebbero potuto influenzare il confronto. Se è stato relativamente facile identificare i due vini extraeuropei (Oregon e Nuova Zelanda), così non è avvenuto per gli altri tre. Un certo provincialismo che porta a ritenere sempre e comunque superiore quanto prodotto oltralpe ha indotto molti ad attribuire all’Oltrepò il Pinot alsaziano solo perché il più semplice. É stata anche abbastanza incerta l’identificazione del Pinot borgognone da molti confuso con quello dell’Oltrepò avendo il nostro campione rivelato in bocca notevole potenza e una componente tannica rilevante e vellutata.

I cinque Pinot noir degustati: Gilbert Ruhlmann (Alsazia), Volnay del Domaine Marquis d’Angerville 1er cru (Borgogna), Cloudy Bay prodotto a Marlborough (Nuova Zelanda), Vigna Pernice del Conte Vistarino (Oltrepò) e Resonance Vineyvard di Louis Viadot (Oregon). Diverso, ma egualmente affascinante, il viaggio nel tempo (5 decenni, 5 vini, 5 storie) condotto come una sinfonia a quattro mani da Luciano Ferraro del Corriere della Sera – nelle cui parole sono rivissuti i caratteri salienti dei cinque decenni esaminati – e da Alessandro Torcoli, giovane e brillante direttore di Civiltà del Bere. Torcoli ha illustrato cinque vini che non solo hanno scandito l’evoluzione dell’enologia italiana in un cinquantennio fondamentale per la sua affermazione internazionale, ma hanno anche saputo interpretare e rappresentare nel bicchiere la società che li circondava e in certa misura li esprimeva. I partecipanti alla masterclass hanno avuto il privilegio di degustare: Amarone della Valpolicella Classico Superiore Doc 1967 di Bertani (anni Sessanta), Rubesco Vigna Monticchio Torgiano Rosso Riserva Doc 1974 di Lungarotti (anni Settanta), Turriga Isola dei Nuraghi Igt 2008 di Angiolas (anni Ottanta), Solaia Toscana Igt 2006 di Marchesi Antinori (anni Novanta) e Cometa Sicilia Igt 2010 di Planeta (anni Duemila). Se gli ultimi tre sono stati proposti in annate più recenti, l’Amarone Bertani e il Rubesco Lungarotti hanno stupito per la loro ‘giovinezza’ a dispetto dei diversi decenni anagrafici.

La capacità di Bertani e Lungarotti di leggere il futuro e il coraggio di creare vini che, distaccandosi dalle mode correnti e dalla domanda stessa del mercato, fossero innovativi anche con il rischio di attendere anni per essere compresi e amati accomuna Amarone e Rubesco. L’Amarone esprime la volontà di produrre in Valpolicella un grande vino dal carattere forte, ma di estrema eleganza mentre il Rubesco è il frutto dell’idea di creare un vino capace di far vivere nel bicchiere, attraverso bouquet e sentori, l’Umbria come “cuore verde d’Italia” e il carattere dei suoi abitanti. Turriga e Solaia sono espressione dell’evoluzione del modo di concepire un vino e del ruolo crescente dell’enologo. Entrambi sono figli di Giacomo Tachis (figura cui l’enologia italiana deve eterna gratitudine) e delle sue intuizioni, prima fra tutte il concetto di ‘souplesse’ (che riunisce eleganza, morbidezza e grado alcolico) declinato in termini mediterranei nel sardo Turriga – che richiama al naso e in bocca la macchia mediterranea che caratterizza tanta parte della Sardegna – e con identità e caratteri toscani nel Solaia che esprime insieme a un corpo notevole grande morbidezza e piacevolezza. Il Cometa, infine, riflette la complessità del nuovo millennio: nasce, infatti, da uno studio – elaborato da Giacomo Tachis, da Attilio Scienza (docente all’Università di Milano) e dal sociologo Giampaolo Fabris – volto a identificare i caratteri da dare ai vini per soddisfare i gusti degli Italiani. È un ‘bianco’ – espresso da un vitigno autoctono campano (il Fiano) coltivato in Sicilia ad altezze elevate – in cui note tipicamente siciliane si fondono con quelle proprie del vitigno e con le caratteristiche delle creature di Tachis.

Un buon bicchiere di vino si può bere in molti modi: qualche volta è bello abbinare al piacere dell’olfatto e del palato la ricerca di ciò che rappresenta in termini territoriali, culturali e sociologici.