La Valdera può essere raggiunta facilmente e in breve tempo dalle principali città d’arte toscane: esplorarla partendo da una di queste significa programmare sorprese, emozioni e ricordi indimenticabili.
Il tour inizia da Pontedera, (comune inserito – con altri quattro della Val d’Arno inferiore – in Valdera, di cui peraltro è tradizionalmente considerato il maggior centro) il cui nome deriva dal ponte sull’Era (dal 1099 per molti secoli unico ponte), fiume che attraversa la città prima di confluire in Arno. Dal Rinascimento, la città ha vocazione commerciale: fondamentale il 1924, anno in cui l’ing. Rinaldo Piaggio rileva la ‘Costruzione Meccaniche Nazionali di Pontedera’ per trasferirvi da Genova parte della sua industria di costruzioni aeronautiche. Percorrerne le vie e le piazze è reso piacevole dalla scelta di arricchirle di monumenti o installazioni temporanee di importanti artisti contemporanei, come la Collezione sedili d’autore in piazza Garibaldi o in viale Risorgimento il Muro di Pontedera: un mosaico (cento metri per tre) progettato nel 2003 da Enrico Baj.
La mia sosta in questa località particolarmente ricca di acque (due fiumi, due canali e un grazioso piccolo lago) deriva dal desiderio di tornare al Museo Piaggio per ripercorrere una parte importante della storia culturale e sociologica del nostro Paese. Giustamente pluripremiato (unitamente all’Archivio Storico Piaggio), va ben oltre la Vespa – l’originale creazione dell’ing. Corradino d’Ascanio (cui si deve anche l’invenzione del primo prototipo di elicottero moderno) – che ci accompagna ininterrottamente dal 1946, simbolo di mobilità individuale e per i ragazzi e le ragazze della mia generazione di libertà ed emancipazione. Alla prima serie 98cc dell’aprile 1946 ne sono seguite più di 150 versioni, alcune rese indimenticabili dai film di cui sono state coprotagoniste (chi non ricorda la Vespa 125 con cui Audrey Hepburn e Gregory Peck scorrazzavano per Roma in ‘Vacanze Romane’?) mentre altre come la Vespa ‘U’ (utilitaria) sono divenute negli anni ‘oggetto del desiderio’ dei collezionisti. Chicca da non perdere in questo viaggio è la sezione dedicata al rapporto con l’arte e il cinema. Tra Vespa e Cinema si è stabilita un’affinità elettiva forse unica: il visitatore mediante un touch-screen può dialogare con i film ‘interpretati’ dai modelli presenti in sala. Altrettanto speciale è la simbiosi con l’Arte contemporanea: in mostra alcuni ‘pezzi’ di grande suggestione come la Vespa Dalì con le scocche laterali firmate dal Maestro del Surrealismo o quella con inserti di alabastro (opera dell’artista volterrano Mino Trafeli) o la Vespa personalizzata da Ugo Nespolo. Il Museo Piaggio, però, non è solo Vespa: percorrendone le sale, si attraversa la storia dei trasporti e quella economica e sociale del nostro Paese: navi, treni, aeroplani, auto, scooter (il prototipo MP5 prodotto nel 1943 e 1944 e conosciuto come ‘Paperino’), motociclette, ciclomotori (chi non ricorda il Ciao?), piccoli mezzi da trasporto come l’Ape, motori marini (notissimo il fuoribordo Moscone) e anche trattori da giardinaggio. Un’esposizione ricca di pezzi unici come l’MP6 (il prototipo della Vespa) e completata dalle collezioni Gilera, Moto Guzzi e Aprilia (famosi marchi del Gruppo Piaggio) che fanno del museo di Pontedera, in particolare per il motociclismo, un unicum mondiale. Il tempo tiranno mi ha impedito di visitare la mostra allestita nelle ampie sale dedicate alle esposizioni temporanee.
Esploro la valle percorrendo strade che costringono a un viaggio meno veloce, ma infinitamente più bello con il gusto della scoperta, quasi in dialogo con la natura, delle bellezze del territorio e della ricerca dei patrimoni artistici e gastronomici. Rivivo con la lucidità della memoria l’affascinante paesaggio collinare in cui ogni angolo è espressione di una straordinaria civiltà secolare e di una natura dall’intrinseca bellezza, per una volta migliorata dall’intervento dell’uomo. L’Era scivola dalle sorgenti (in prossimità di Volterra) tra dolci colline su cui le macchie di colore delle diverse coltivazioni (alberi da frutta, oliveti, vigneti, grano, girasoli…) sono una tavolozza qua e là impreziosita dal vivace giallo delle ginestre in fiore e dal verde scuro dei caratteristici duplici filari di cipressi che annunciano il grigio e ocra dei casolari.
La mia prima meta è Palaia dove ho appuntamento con un altro produttore che avrei voluto rincontrare a Vinitaly se la nota pandemia non avesse boicottato (a servizio della concorrenza internazionale?) anche la più importante e rappresentativa vetrina mondiale del vino italiano. Si tratta di Usiglian del Vescovo, una di quelle aziende che con le loro scelte hanno portato i vini della zona a livelli qualitativi pari a quelli delle aree storiche. Palaia, – di cui, confesso, ignoravo l’esistenza – ha origini etrusche e dal borgo si dipartono splendidi percorsi per escursioni a piedi, a cavallo o in bike: affascinante tra i sentieri recentemente ripristinati il Grande Percorso Naturalistico. A Usigliano Palaia, arroccato sopra una collina con una vista spettacolare, mi attende un millennio di storia, cioè Usiglian del Vescovo, un’azienda sita in un luogo prima del cristianesimo dedicato a Giano (quello dalla doppia faccia), divinità agreste simbolo dei cicli della natura. L’attuale denominazione risale al 1078 quando Matilde di Canossa ha donato questi terreni al vescovo di Lucca che decide di utilizzarli a vigneto per produrvi il vino (in quell’epoca consumato anche dai fedeli) necessario alla S. Messa (e ritengo anche alla sua tavola). Prima vendemmia: 1083. Si tratta di due date fondamentali oggi ricordate da due Igt ottime, anche in rapporto al prezzo. Quando li ho degustati a Vinilaly 2019, non conoscevo il significato dei nomi, ma ero incuriosito dall’utilizzo di due vitigni simbolo dell’enologia francese: il Viognier per il 1078 (al 50% con lo Chardonnay) e il Petit Verdot in purezza per il 1083. Due vitigni esigenti che a Usigliano hanno trovato una grande interpretazione. Con il debuttante 1078 – per il cui affinamento sono utilizzate anche anfore di coccio pesto tipicamente locali – è stato amore a prima vista: sono stato travolto da un’ondata di profumi e di sensazioni intensa ed equilibrata che richiama i profumi della collina toscana. Il 1083 era, invece, già un classico. Pluripremiato, è un vino tradizionale, moderno e originale: ottenuto da Petit Verdot in purezza – ne conserva le caratteristiche (per esempio tannini intensi ma morbidi e vellutati) arricchite peraltro dal territorio toscano che ne fornisce una delle migliori interpretazioni a livello mondiale – ha un bouquet affascinante per la ricchezza di note balsamiche e floreali tipiche della macchia mediterranea e fa gioire il palato con un’armonia di sensazioni che coniugano potenza e freschezza. Complessità e unicità che ne fanno un vino per piatti importanti, ma anche da sorseggiare meditando su un bel libro o un bel film.
Se la viticoltura (e probabilmente anche l’olivicoltura) è stata costante nei secoli, la vocazione agricola dell’ex feudo di Matilde si è affermata solo quando per una condizione di pace non più occasionale le antiche strutture sono state trasformate da presidio militare in elegante villa fattoria. Lunghe e complicate (intrigante la storia degli stemmi) le sue vicende fino al 2001 quando è stata acquistata dall’attuale proprietà che ha come stella polare l’estrema qualità, l’agricoltura sostenibile e la tutela di un territorio unico (è il fondale ricco dei fossili di un mare preistorico) capace di esprimere profumi e aromi particolari. Trasmettere questi valori richiede attenzioni in vigna, in vendemmia e in cantina: per esempio vinificare separatamente le uve di ogni vigneto per esaltarne le peculiarità. Conseguenza ovvia è la scelta di produrre vini biologici (la certificazione ufficiale avverrà con la vendemmia 2020). I vigneti – dedicati a Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon, Syrah, Petit Verdot, Chardonnay e Viognier – sono di piccole dimensioni e si sviluppano con diverse esposizioni per sei chilometri lungo il costone della collina. Cuore storico della tenuta (106 ettari, 23 vitati) sono gli edifici medievali (è visitabile un lungo cunicolo di fuga che sbuca nella valle limitrofa) che donano un fascino particolare alla barriccaia e alla sala di rappresentanza. Degustare in ambienti così suggestivi è un’esperienza indimenticabile, specialmente se lo sono anche i vini. Resistendo alla tentazione ho degustato (oltre ai due già citati) il Chianti Superiore Docg – ottenuto da Sangiovese con piccolissime aggiunte di altri vitigni – di grande eleganza, dovuta al suolo in cui le vigne affondano le radici, e connotato da un intenso bouquet e dall’essere al palato morbido, vellutato e piacevole lungo tutto il pasto – e un paio di vini che mi incuriosivano in modo particolare, rinviando la conoscenza degli altri (incluso Il Barbiglione, originale espressione dello Syrah), ahimè, all’appuntamento saltato del Vinitaly 2020. In Mora del Roveto ho scoperto un vino elegante ed equilibrato che esprime perfettamente il terroir. Il prezzo molto contenuto permette di bere qualità senza ansie. Il Sangiosè, splendido il suo rosa tenue, è ottenuto da uve Sangiovese in purezza raccolte con vendemmia anticipata per ridurne l’alcolicità ed esaltarne aromaticità e freschezza: ideale anche per un sano aperitivo. Tralasciati non senza rimpianti gli assaggi delle birre e della grappa, non ho saputo rinunciare all’extravergine prodotto dai 15 ettari di oliveti aziendali. Frantoio, Leccino e Moraiolo originano un fruttato di notevole intensità ed equilibrio con un’esplosione di sentori di carciofo. Una delizia.
Il territorio di Palaia è ricco di iniziative: poco fuori le mura del borgo medievale nella bella Pieve di San Martino (costruita in cotto nella seconda metà del 1200 in stile tardoromanico con successivi elementi gotici) si svolge in estate il Festival delle corali, mentre nell’intrigante frazione di Montefoscoli ricca di proposte culturali, per la sua completezza e unicità merita una visita (eventualmente in occasione della Festa della Civiltà contadina, goloso percorso tra i sapori locali) il Museo della Civiltà Contadina che presenta anche una serie di laboratori di trasformazione e immagazzinamento dei prodotti di un’antica fattoria. Poiché non si conosce realmente un territorio se non se ne conosce la cucina (quella di Palaia è una versione locale della toscana), cercandola non nei ristoranti che rendono a volte irriconoscibili le antiche ricette, ma nelle trattorie che le propongono com’erano, mi sono divertito ad assaggiare due piatti basati sul mitico pane toscano: Minestra di pane e Pancrocino maremmano facendomi poi convincere (e non me ne sono pentito) a gustare i Pici con salsa briciolata. A questo punto, nonostante il buon vino, la gola ha dovuto lasciar strada alla sazietà e si è dovuta accontentare di un Agro e dolce. Un dolce indimenticabile. Allontanandomi da Palaia la gola mi chiedeva insistentemente un ‘ritorno a Palaia’ citandomi il Cinghiale alla cacciatora, la Bistecca di maiale con le rape, i Cardi trippati…
Si ringrazia per le foto del Museo Piaggio la Fondazione Piaggio onlus